Almanacchi del passato

Questo mazzetto di antichi calendarietti e almanacchi è sopravvissuto al passare del tempo e dei suoi vortici che spesso cancellano le testimonianze della vita materiale. Facevano parte del tesoretto di zia Vincenzina che li ha conservati a lungo gelosamente e che io stesso (forse anch'io geneticamente affetto da sindrome conservatoria) ho tenuto da parte per anni, in attesa di esaminarli con qualche attenzione. 
Sono una cosa da nulla, ma risalgono ai primi anni dell'ottocento, e devono essere stati inizialmente raccolti dal nonno di zia Vincenzina, il mio trisavolo Antonio che si era distinto nella repressione della reazione borbonica e che forse, conscio di un suo ruolo nella storia, si era illuso di imbrigliare il tempo conservandoli. Certamente la cosa depone a favore dell'ipotesi sull'origine genetica della mia compulsione a conservare gli oggetti.
A sfogliare i calendarietti si ricava poco, se non l'elenco dei giorni di quegli anni all'inizio dell'ottocento e la suggestione che ne consegue ad immaginare eventi minuti e personali ritagliati nel tempo scandito da caratteri oramai quasi illeggibili (se questo era l'obiettivo a cui il trisavolo mirava, potrei dirgli che ha colpito nel segno).
Più interessanti sono due piccoli almanacchi nei quali si trovano alcune indicazioni e previsioni, stagione per stagione, con un linguaggio ottocentesco non molto dissimile però da quello degli oroscopi odierni: vago e allusivo, sia per raccomandare cautela, sia per promettere una qualche gioia e soddisfazione. 
Curiosamente, in quello datato 1820, l'autore (il Gran Pescatore di Chiaravalle) finisce per fare una specie di marcia indietro quando, al termine della sua lunga tirata sulle stagioni, dichiara: l'Autore di quest'Almanacco si protesta di non predire con certezza li futuri avvenimenti, ne (sic) ciò che dipende dal Supremo Motore delle stelle, e dal libero umano arbitrio. Insomma, mette le mani avanti a scanso di qualche contestazione e quasi scarica la responsabilità di ciò che sarà sia sull'intervento divino sia sul comportamento umano.
Lo stesso Pescatore di Chiaravalle, nell'edizione del suo almanacco del 1832, ripete la sua descrizione delle stagioni con le stesse parole di dodici anni prima, ma questa volta, dopo aver elencato le malattie autunnali (dolori di capo, di denti, tumori, podagre, tisichezze), finisce per citare il colera: Il cholera morbus sarà il solo da non potersi tramandare a noi. Dunque assume un atteggiamento negazionista, anche se in quegli anni il colera si era diffuso fino in Polonia, Ungheria e Germania, e dal 1835 al 1838 si diffonderà in tutta Italia.
A Roma il cholera morbus sarà ribattezzato in romanesco diventando Collera Moribus, forse per evocare l'ira divina e la conseguente condanna a morte. Sarà il protagonista di trentaquattro sonetti del Belli che descriverà le chiacchiere da bar degli avventori dell'Osteria della Gensola, anticipando di quasi duecento anni le polemiche sulla pandemia che ci ha recentemente coinvolti.
E qui si chiude il cerchio, nell'incontro tra un dettaglio dell'almanacco del mio trisavolo e i dettagli di cronaca dei tempi nostri.
 

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